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Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2012 alle ore 20:10.

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Alessandro Del Piero suscita simpatia. Anche a me, che di calcio mastico poco. È stato capace di reggere una carriera che ha pochi riscontri nella storia del calcio italiano. Con il suo sorriso in bilico tra riservatezza e disincanto, ha sopportato gli osanna e le lapidazioni della stampa sempre con l'aria di chi, dopo avere attraversato un deserto, si scrolli di dosso la polvere con un solo gesto, quotidiano e preciso. Epicentro di un mondo che ha fatto della dismisura e del clamore il carburante della sua stessa esistenza, lui rappresenta la misura e il sussurro. L'Avvocato lo ha chiamato «Pinturicchio» e immediatamente i giornalisti sportivi hanno ripreso il soprannome, hanno detto di lui «è» Pinturicchio, non hanno detto «è come» Pinturicchio: avvicinandolo in questo modo al celebre pittore perugino che ebbe tra i suoi garzoni Raffaello. Già così l'accostamento mi sembrerebbe ardito, ma dire che Del Piero è Pinturicchio, eliminando anche il nesso «come», che, almeno, un po' di distanza la produce, significa avvicinare lo sport più praticato in Italia al Rinascimento, uno dei momenti in cui l'essere umano è andato più vicino a toccare il sublime.

Se uno dei più noti maestri del Rinascimento è Del Piero e Del Piero è uno dei più celebri calciatori del momento in Italia, il calcio italiano è la palestra del Rinascimento. Questa è un'iperbole. La parola «iperbole» deriva dal greco hyperbolé e significa «sollevamento, lancio verso l'alto»: serve ad amplificare la realtà, mantenendo con quest'ultima un qualche legame di somiglianza. Ma può anche essere utilizzata nella direzione opposta: per ridurre la portata e il vero di ciò che accade. Il rischio più frequente di un simile processo retorico è il ridicolo. In sostanza, l'iperbole è la cabrata di un aeroplano, anzi, di più: è il volo verticale dello Shuttle diretto a forare la profondità della stratosfera. Se si descrive la sconfitta per 4 a 0 di una famosa squadra di calcio come se fosse la battaglia di Canne, si fa un'iperbole. Roma era "veramente" in pericolo dopo quella disastrosa disfatta. Se alla fine avesse vinto Cartagine, Roma sarebbe stata coperta da un lenzuolo di sale.

Uno scrittore cerca di servirsi dell'iperbole con parsimonia, lo fa, di solito, quando il silenzio si raddensa in gola davanti a qualcosa di inesprimibile; è l'ultima carta da giocare per conquistare alla parola qualche lembo ulteriore di realtà. Viceversa, il linguaggio mediatico televisivo e giornalistico fa un largo uso dell'iperbole, anche in senso traslato (quando si dice: un comportamento iperbolico, un atteggiamento iperbolico), rendendo così straordinario l'ordinario e ordinario lo straordinario. C'è bisogno di una forma di celebrità buona per tutti, che partecipi del divino e del quotidiano insieme, che suggerisca l'idea che anche noi, della razza di chi rimane a terra, potremmo respirare l'aria rarefatta delle cime. Così, spinti dal soffio forte delle parole, si lanciano in alto ragazzi e ragazze di venti, venticinque anni, come fossero allegri coriandoli di carnevale, ignorando che cosa accade loro quando infilano la parabola discendente. La celebrità è un angelo di fuoco: quando si ritrae rischia di lasciarsi dietro un sentiero di cenere. Occorre una buona apertura d'ali per planare da un empireo simile senza fracassarsi al suolo. Il senso del limite si spezza come una canna di bambù. Quando dico questo penso a Pantani. Oppure a Carnera, che è stato un mito mondiale ed è rovinato al tappeto sotto i pugni di Baer prima e di Joe Louis dopo.

Nel 1977 mezzo Friuli viveva nei prefabbricati, da circa un anno era stato arato dal terremoto. Io avevo dieci anni, ero un bambino. L'immagine che ho oggi dei bambini è l'immagine della purezza. Secondo me un bimbo è pura malvagità o pura bontà. Nella sua testa i colori dei pensieri non si sono ancora mescolati dando luogo alle sfumature che noi conosciamo. Dopo il terremoto, nei prefabbricati noi bambini eravamo esseri liberi, pura aria nell'aria; credo che a nessuno di noi importasse della catastrofe familiare che i nostri genitori avevano vissuto. Il loro dolore ci restituiva libertà, eravamo senza le briglie di un'attenzione sviata dall'urgenza. Indossavamo maglioni infeltriti che le organizzazioni umanitarie avevano rovesciato a cataste in Friuli e avevamo le tasche piene di biglie. Gnomi delle discariche, cercavamo bottiglie da allineare come bersagli per le nostre fionde.

Mi ricordo di Primo, Primo era un cecchino con la sua fionda, anch'io, alla fine, mi arrangiavo bene, a forza di lividi sul pollice e sull'indice. Abitavo a Chiusaforte, un paese infilato in una gola e stretto lungo la statale e il fiume; le montagne alte limitavano il cielo ma liberavano l'immaginazione. Avevamo tutto il tempo per noi. Eravamo tempo. Così fu facile inventarci una nostra personale Olimpiade. L'Olimpiade di Ceclis. Il campo in cui abitavamo. Saremo stati una dozzina, non di più. Per il salto in alto avevamo messo insieme due aste; dei chiodi che qualcuno di noi aveva rubato a suo padre erano stati disposti a intervalli regolari lungo le aste e servivano da sostegno all'asticella, un pezzo di canna da pesca in fibra che si piegava al centro. Cinquanta, sessanta, settanta, ottanta centimetri erano le misure, il traguardo più ambito: un metro. Le prove di resistenza e di velocità non davano problemi: accanto al campo si apriva una braida incolta perfetta per le nostre prestazioni atletiche. Avevamo stabilito in tre giri di braida la durata della prova di resistenza, duemila metri circa, e in centoventi passi quella di velocità. Per il lancio del peso c'era una grossa pietra e il giavellotto era un bastone affilato dai nostri temperini. L'Olimpiade doveva durare due giorni: il primo giorno le semifinali, il secondo le finali. Non c'erano premi per chi avesse vinto, soltanto la stima accordata dal branco.

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