Foucault in Iran: rivoluzione, entropia, uguaglianza

[Il 9 dicembre arriva in libreria il secondo numero di Nuova Rivista Letteraria, “semestrale di letteratura sociale” diretto da Stefano Tassinari e pubblicato dalle Edizioni Alegre. Questo numero è dedicato ai rapporti tra sinistra politica e cultura, con interventi su Gramsci, Trotzky, Sanguineti, Foucault, il ruolo degli intellettuali nella guerra civile spagnola, il “gramscismo di destra”, le radio libere, il fumetto, l’Annosa Questione Mondadori (ri-sviscerata da WM2) etc. Tra i collaboratori di questo numero ci siamo noi, Carlotto, Arpaia, Fois, Emidio “Mimì” Clementi, Alberto Sebastiani e tantissim* altr*. Prezzo di copertina: 10 euro. Per abbonamenti: 2 numeri 15 euro, da versare sul Ccp 65382368 intestato a Edizioni Alegre soc. coop. giornalistica Circonvallazione casilina 72/74 00176 Roma. Causale: “Abbonamento Letteraria”.
In anteprima, proponiamo l’articolo di WM1, che affronta il capitolo più famigerato nella biografia intellettuale di Michel Foucault: quello dell’entusiasmo per la rivoluzione iraniana del 1978-79. L’articolo, scritto per una rivista non accademica e “asciugato” per farlo rientrare nel limite di lunghezza stabilito, ha un taglio il più possibile divulgativo.]

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IN ULTIMA ISTANZA
Foucault in Iran: rivoluzione, entropia, uguaglianza

di Wu Ming 1

Nell’ottobre del 1978 Michel Foucault (d’ora in avanti MF) visita un Iran già scosso dai moti di piazza contro lo Scià, moti che il regime reprime nel sangue, con l’unico risultato di rafforzare la determinazione popolare. La cacciata di Reza Pahlavi [foto a destra] è ormai imminente, tutti sentono che una rivoluzione è dietro l’angolo, ma nessuno sa dire di quale rivoluzione si tratti. In quest’autunno, le parole d’ordine sono poche, chiare, focalizzate. Tutte le correnti politiche e le classi sociali fanno convergere gli sforzi in un’unica, pressante richiesta: «Via lo Scià!» C’è già chi parla di un “governo islamico”, ma l’ayatollah Khomeini è ancora in esilio a Parigi, l’evento rivoluzionario ha tante anime ed è ancora “in fusione”. MF si entusiasma per l’energia che circola, scrive diverse corrispondenze per il “Corriere della sera”, ha intuizioni folgoranti ma è anche vittima di “sviste”.
“Sviste” in parte intenzionali: MF si dichiara incapace di «scrivere la storia del futuro», non si pone il problema di quale regime nascerà dall’evento rivoluzionario. Quel che gli preme è analizzare quest’ultimo come frattura storica, rottura di un ordine, fine di un assetto politico e di un modello sociale. MF interpreta quel che vede come un prolungato «sciopero contro la politica», con il rifiuto di ogni compromesso, di ogni schema tradizionale di negoziato. Dove c’è un solo e unico scopo dichiarato urbi et orbi con chiarezza cristallina, non può esserci mediazione. A fronte della temporanea unanimità del corpo sociale nel volere la cacciata del tiranno, MF si interroga su cosa sia la volontà collettiva e quale importanza vi abbia la dimensione di una spiritualità politica, dimensione che l’occidente ha perso da tempo. E’ possibile tornare a porsi il problema di un rapporto tra il politico e lo spirituale? Nel chiederselo, il filosofo mette le mani avanti:

«Sento già degli europei ridere; ma io, che so ben poco dell’Iran, so che hanno torto.»

Tornato in Francia, MF continua a seguire gli avvenimenti. Finalmente lo Scià va in esilio, ma da quel momento l’evento rivoluzionario inizia a “rapprendersi”, la componente teocratica ne assume la direzione e la molteplicità inizia a lasciare posto all’Uno, comincia a farsi regime. L’unanimità della singola richiesta cambia di segno quando viene dirottata in plebiscito: nell’aprile del ’79 un referendum ratifica per l’Iran l’assetto di “repubblica islamica”. La componente teocratica già perseguita le altre anime della rivoluzione, la “fusione” di ieri lascia il posto a una glaciazione.
Benché incalzato pubblicamente da diversi soggetti (femministe, attivisti per i diritti umani, esuli della sinistra iraniana), per un po’ di tempo MF non sposta l’accento, si rifiuta di porsi il nuovo-vecchio problema di un Terrore che è già Termidoro. Sono altri gli aspetti su cui gli preme riflettere, in primis quello dell’Islam come portatore di un nuovo rapporto (rivoluzionario, ça va sans dire) tra spiritualità e politica. Così, quando prenderà le distanze dalla nuova repressione, molti giudicheranno il suo intervento tardivo e timido.
Dalla primavera del ’79 alla sua morte nell’84, MF non si occuperà più dell’Iran. Il periodo del suo entusiasmo per la rivoluzione iraniana è il più famigerato nella sua biografia, e ha attirato molte critiche. Eppure, se guardiamo ai molti gauchistes che riposero speranza in quell’evento, spesso inserendolo a forza in griglie concettuali pre-esistenti (marxiste-leniniste, anti-imperialiste), gli “abbagli” di MF sembrano poca cosa.
Nei suoi articoli (anche questo andrebbe rimarcato: sono articoli scritti a caldo, non saggi ponderati), MF legge la rivoluzione iraniana nella sua singolarità, indagando il suo essere diverso da ogni evento rivoluzionario conosciuto. Proprio per questo, non è davvero di Iran che vorrei parlare in questa sede: non ci sono mai stato, non sono competente in tema di Islam sciita, non mi sono mai occupato di cose persiane. Mi interessa questa storia perché c’è un potenziale «Iran» ovunque, nel senso che ogni evento che possa dirsi tale è singolare. I falsi eventi e gli pseudo-eventi mediatici vengono presentati come unici (“senza precedenti” è una delle formule più abusate e inflazionate della nostra epoca) ma si somigliano tutti tra loro, mentre i veri eventi sono accomunati dal fatto di somigliarsi poco.
Forse non dirò nulla di radicalmente nuovo. Diversi commentatori e studiosi hanno affrontato i problemi sollevati dal modo in cui MF seguì quegli eventi. Solo che la letteratura secondaria su MF è un ginepraio, non tutti hanno modo o voglia di accedervi. Inoltre – con poche eccezioni degne di nota – è alquanto noiosa. Il contrario dell’effetto che producono gli scritti di MF, come in diversi hanno fatto notare. Può dunque essere utile un momento di sintesi operato da un “profano” (un autore di romanzi d’avventura!) fuori dai soliti contesti. Solo alla fine trarrò una conclusione che esula dall’ambito degli “studi foucaultiani”.
Negli ultimi anni si sono amplificate a scopo polemico le “sviste” di MF a scapito di quel che riuscì a vedere molto prima di altri. La sua “débacle” iraniana è stata presentata come emblema della bancarotta dell’intellettuale impegnato / interventista, della leggerezza con cui gli intellettuali di sinistra degli anni Settanta scherzarono col fuoco anti-occidentale e terzomondista.
Nella versione più destrorsa di quest’approccio, si arriva a vere e proprie calunnie.
Qualche anno fa “Il Giornale” scrisse che MF «non esitò a riconoscere in Khomeini le stigmate di un profeta della libertà», affermazione falsa, poiché MF si limitò ad analizzare la figura di Khomeini come «punto d’incontro della volontà collettiva» e a interrogarsi sulle ragioni di tale centralità.
Di recente, la rivista USA Reason, organo di propaganda ultraliberista, ha scritto che MF «visitò due volte il paese sotto gli Ayatollah». Altra falsità, dato che Foucault non tornò mai in Iran dopo la rivoluzione.
Un’altra fandonia ricorrente è che Foucault si sia incontrato con Khomeini, circostanza mai avvenuta. MF vide l’Ayatollah solo da lontano e non scambiò mai una sola parola con lui.
Sull’altro versante, quello della critica postmoderna e post-coloniale, di MF viene denunciato un approccio eurocentrico e paradossalmente “orientalista”. Sarebbe stato questo approccio a produrre la sua “cecità” di fronte agli abusi.
Procediamo con ordine.
MF non rientra nella categoria degli intellettuali di sinistra se non in modo molto sghembo: il suo essere “di sinistra” somiglia poco all’essere di sinistra di chiunque altro, come il suo “impegno” è molto diverso da quello di Sartre, nonostante le cause sostenute siano in gran parte le stesse. Perciò MF non rientra nel novero dei “cattivi maestri”; non rientra nel novero dei maestri tout court, perché non vuole essere maestro di nessuno, non mette su cenacoli, non si circonda di adepti come Lacan. Anzi, in più occasioni ammette di sentirsi solo. La solitudine è in fondo un effetto collaterale del suo approccio filosofico: vale la pena conoscere solo se questo implica «la messa in crisi di colui che conosce», e il pensiero critico deve innanzitutto criticare se stesso. MF si rifiuta costantemente di dare qualsivoglia “linea” e contesta la pretesa da parte degli intellettuali di assumere una “posizione profetica”:

«è vero che un certo numero di persone […] non riescono a trovare nei miei libri dei consigli o delle prescrizioni che permettano loro di sapere “che fare”. Ma appunto il mio progetto è proprio fare in modo che essi “non sappiano più che fare”: lavorare affinché gli atti, i gesti, i discorsi che fino a quel momento parevano loro ovvi diventino problematici, rischiosi, difficili…» (da una tavola rotonda sulla prigione, maggio 1978, pochi mesi prima del viaggio in Iran).

Se si può parlare di un “eurocentrismo” di MF, ciò ha a che fare coi suoi campi di interesse, non coi “valori”. La ricerca di MF è “eurocentrica” in senso letterale, perché mantiene un focus sulla storia europea. Più di questo non si può proprio dire. Non c’è libro o intervento in cui MF non rifiuti – con foga persino eccessiva – tutti gli “universali antropologici”. Nei confronti di questi ultimi rivendica «uno scetticismo sistematico». Non che per lui sia impossibile trovare invarianti trans-storici e trans-culturali, e che ritenga doveroso precludersi l’approdo a un universale, ma ciò deve avvenire solo in ultima istanza: «Non si deve ammettere nulla di quest’ordine che non sia rigorosamente indispensabile.». A MF interessa la specificità di ogni pratica, di ogni discorso, di ogni evento. Il suo metodo affronta la storia come una successione di cesure, di svolte improvvise non sempre visibili. Bisogna ritrovare queste svolte sotto le apparenti continuità.
Quest’approccio è ben presente nei suoi articoli sull’Iran: la sua costante preoccupazione è far capire a cosa non somigli quell’evento, cos’abbia di singolare, rispetto a cosa rappresenti una rottura. MF vuole rintracciare le linee di un “discorso” specifico, quello della rivoluzione iraniana nella sua fase iniziale. Per questo è molto guardingo nei confronti delle “grandi parole” con la maiuscola reverenziale: a essere importanti non sono l’Oriente o la Modernità, e a ben vedere nemmeno la Rivoluzione (MF usa la parola con un evidente circospezione, circondandola di distinguo), nemmeno l’Evento. Questo è al tempo stesso il punto di forza… e il limite del pensiero foucaultiano. Ci tornerò sopra tra non molto.
Torniamo ai reportages di MF da Teheran e altre città iraniane: non saranno poche le intuizioni a rivelarsi valide negli anni a seguire. Ho già accennato al rapporto tra spiritualità e politica, tema che nel XXI secolo tornerà all’ordine del giorno.
Uno dei passaggi più «controintuitivi» e azzeccati è quello in cui MF descrive le pretese dello Scià di “modernizzare” il Paese come unico, vero arcaismo nella vita pubblica dell’Iran. Una modernizzazione intesa come importazione acritica di un modello, che da un lato insegue e scimmiotta l’occidente, dall’altro cerca – ma solo blandamente – un “adattamento”, una “localizzazione” falsa tramite l’import di kitsch orientalistico da un altrove già «modernizzato»:

«…a decine si allineavano sulle bancarelle incredibili macchine per cucire, enormi e decorate, come se ne possono vedere nelle réclame dei giornali del XIX secolo; istoriate di disegni a forma di edera, di piante rampicanti e di fiori sboccianti, esse imitavano in modo grossolano vecchie miniature persiane. Questi occidentalismi fuori uso, marcati del segno di un Oriente desueto, portavano tutti la dicitura: made in Corea del Sud.»

MF vede anche profilarsi un nuovo ruolo dell’Islam radicale a livello planetario. Qui, come sempre, è attento a non generalizzare: non parla dell’Islam come di un unico blocco, ma cerca le singolarità. Ad esempio, ci tiene a precisare che sta parlando dell’Islam sciita, poi rimarca che nel clero sciita ci sono differenze di vedute.
MF esprime l’idea che ci sarà uno sviluppo rivoluzionario dentro l’Islam:

«[Da oggi] ogni Stato musulmano può essere rivoluzionario [in realtà l’originale francese diceva “révolutionné”, N.d.R.] dall’interno, cominciando dalle sue tradizioni secolari».

Nel leggere questa frase vanno tenute presente due cose: MF non intende «rivoluzionario» [«rivoluzionato»] nel senso della lotta di classe, ma nel senso di un evento che produce una frattura storica; inoltre, questo “dentro” è relativo. Nella globalizzazione è impossibile individuare con nettezza i confini perché siamo tutti eredi di diverse tradizioni. Ogni tradizione (in senso stretto, la pratica del consegnare a chi viene dopo) è multilineare e ha tante origini. Si può parlare di “interno” di una tradizione solo se la premessa è che i confini sono aperti. Perciò, quando MF dice: «cominciando dalle sue tradizioni secolari», l’accento va su cominciando. E’ una partenza, non un approdo. Nemmeno in questo caso MF pensa a una continuità dei processi: lo sviluppo rivoluzionario in seno all’Islam incontrerà altri reagenti. In quest’ottica, MF si chiede se l’Islam radicale si approprierà della causa palestinese:

«Cosa accadrebbe se questa causa ricevesse il dinamismo di un movimento islamico, ben più forte di un riferimento marxista-leninista o maoista?».

Mancano ben nove anni alla fondazione di Hamas.

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Teheran, giugno 2009. Un trentennio esatto dopo la proclamazione della repubblica islamica, divampano le proteste contro i brogli elettorali a favore del presidente Ahmadinejad. Scende in strada un movimento in gran parte giovanile (a parte l’alto clero, in Iran pressoché tutto è in gran parte giovanile). E’ il cosiddetto “Movimento Verde”. In Occidente – almeno inizialmente – è descritto come filo-occidentale, liberale etc., mentre quegli attivisti urlano dai tetti di Teheran “Dio è grande”, sostengono Mir-Hossein Mousavi (già primo ministro nel periodo 1981-89) e si richiamano alla rivoluzione del ’79 nel suo momento “in fusione”, quando l’ingresso della spiritualità nella politica (e viceversa) apriva nuove possibilità anziché chiuderle. A proposito di “altri reagenti”, quegli attivisti usano la rete e i social network, ricorrono agli strumenti forniti loro dalla «rivoluzione» digitale, e lo fanno a modo loro, “agendoli” con le loro pratiche.
In un articolo dell’8 settembre 1978, MF descrive metaforicamente il rapporto tra il movimento e i predicatori del clero sciita:

«Questi uomini di religione sono come lastre sensibili sulle quali si incidono le collere e le aspirazioni della comunità. Volessero andare contro corrente, perderebbero questo potere che si basa essenzialmente sul gioco della parola e dell’ascolto.»

E’ quello che succede trent’anni dopo. Il Movimento verde, rifiutando un ruolo subordinato nel gioco della parola e dell’ascolto, mette in crisi il clero, che infatti entra in una fase di nuove divisioni e conflitti interni. Osservatori vicini al movimento accusano la “guida suprema” Ali Khamenei di cercare il suo consenso «nelle caserme anziché nelle moschee». Messo in crisi il gioco della parola, non resta che la repressione.

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Veniamo a quello che secondo me è il vero limite dell’approccio foucaultiano. Teso com’è a cercare le discontinuità, le fratture, le singolarità, i discorsi specifici, MF non si accorge di un invariante che si ripresenta in ultima istanza. Ignora i segnali del riproporsi, sotto le discontinuità, di “vecchi” problemi che possiamo senza remore definire universali.
Sì, tutti i veri eventi hanno in comune il fatto di somigliarsi poco. Ma la termodinamica ci insegna che a una dissipazione di energia corrisponde una trasformazione irreversibile, che porta un sistema verso lo stato uniforme e indifferenziato che chiamiamo “equilibrio termodinamico”. Quando un evento rivoluzionario perde energia, si riducono anche le sue specificità. Inizia a perdersi ciò che lo distingueva da tutto il resto, che lo aveva staccato dallo sfondo. L’evento rivoluzionario iraniano è diverso dagli altri, ma quando le energie calano inizia a incontrare gli stessi problemi di tutti gli eventi rivoluzionari, in un passaggio acceleratissimo dalle lotte interne al Terrore al Termidoro. Ancora una volta il ripiegamento è sul terreno dell’uguaglianza, e le donne rivoluzionarie sono le prime sacrificate. In Francia, nell’autunno del 1793, la Convenzione giacobina scioglie tutte le associazioni rivoluzionarie femminili. In Iran, la restrizione della libertà femminile è una delle prime preoccupazioni dell’appena insediato regime khomeinista. Nella primavera del ’79, nel giro di poche settimane, una gragnuola di leggi discriminatorie si abbatte sulle donne. A Teheran, l’8 marzo, militanti di Hezbollah attaccano il grande corteo di donne che contesta il giro di vite. Le manifestanti gridano: “No alla dittatura!” e “Abbiamo fatto la rivoluzione per essere libere!”. Gli aggressori rispondono con pietre e bastoni.

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E’ l’entropia dell’evento rivoluzionario a rivelare la famosa “ultima istanza” in cui è giustificato il ricorso all’universale, e quest’universale è l’idea di uguaglianza. Quella che – con un’iperbole che a Foucault non sarebbe piaciuta – Alain Badiou chiama “Idea Eterna”. Lo scacco di una rivoluzione si misura sempre nel suo cozzare contro quest’idea, nel suo non essere all’altezza di questo universale. Universale che, benché più volte incompreso, resta comprensibile a chiunque, perché comprensibili a chiunque sono le implicazioni del motto: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Se, pur con tutto lo sporcarsi le mani e le scelte gravose, una rivoluzione non mostra di puntare all’inveramento di questo motto, allora non è più niente, torna ad essere falso evento.
La vicenda di Foucault in Iran ha dunque molto da dirci: dimostra che un approccio anche fecondo e ricco di intuizioni non toccherà davvero il reale se non affronta il problema dell’universale. Che per me è come dire: il problema del comunismo.
Oggi l’universale viene rifiutato anche in ultima istanza, anche quando il ricorso ad esso è inevitabile. L’inizialmente giusto discorso delle “differenze” e delle “singolarità” si è trasformato in incontrollata proliferazione di nuove identità (nazionali, etniche, politiche, sottoculturali, sessuali). Sembra interdetta la ricerca di un “nocciolo” di esperienza comune all’intera specie umana, e di idee di eguaglianza e giustizia che valgano per tutti. Anche a sinistra, ogni universalismo è considerato a priori totalitario, come se il pericolo fosse ancora questo anziché la perniciosa cultura del tenere-lo-sguardo-basso e dell’ognuno-al-posto-suo. Perché è questo il significato di “tolleranza”, soprattutto oggi: sopportare l’altro purché non invada il mio spazio. Quello del tollerante è un “vade retro” più gentile di quello dell’intollerante, ma è comunque un vade retro. Ognuno rimanga nella sua nicchia, con un po’ di “discorso dei diritti” a far sì (chissà ancora per quanto) che la tensione non degeneri in guerra aperta, identità-contro-identità.
Bisogna tornare a porsi il problema dell’universale, senza per questo scordarsi della singolarità.
Concludo con le parole di un filosofo che nella sua vicenda biografica non fu all’altezza dell’idea di uguaglianza (ed è il minimo che si possa dire) ma ci ha regalato un’immagine molto bella. Nella sua Lettera sull’umanismo, Martin Heidegger parla della spinta al «naufragio», dell’uscire dalla propria vicenda per emergere «nell’impensato», in un mondo al quale è stata restituita la dimensione di «mistero primigenio». Dimensione che è compito del filosofo evocare.
L’universale è oggi l’impensato in cui bisogna riemergere, l’uguaglianza è il mistero che va evocato. Forti anche della lezione di “buoni maestri” (di maestri riluttanti) come Michel Foucault.

Bibliografia
J. Afary & K. Anderson, Foucault and the Iranian Revolution: Gender and the Seductions of Islamism, University of Chicago Press, 2005
A. Badiou, L’hypothèse communiste, Nouvelles Editions Lignes, Paris 2009
D. Eribon, Michel Foucault, Leonardo, Milano 1991
M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, Medusa, Milano 2001
M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Mimesis, Milano 1994
M. Foucault, Taccuino persiano, Guerini e associati, Milano 1998
M. Lilla, Il genio avventato. Heidegger, Schmitt, Benjamin Kojève, Foucault, Derrida e i tiranni moderni, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010
J. Miller, La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano 1994
P. Veyne, Foucault. Il pensiero e l’uomo, Garzanti, Milano 2010

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Ricordiamo che da pochi giorni è in libreria anche il numero monografico della rivista Riga interamente dedicato a Furio Jesi, a cura di Marco Belpoliti ed Enrico Manera. Ne avevamo dato ampia anteprima qui. Contiene un racconto di WM1 intitolato “Estratto da Trommeln in Genua“, che si svolge a Genova il 20 luglio 2001, ma quello è appena un antipasto: ci sono testi e contributi vari di Georges Dumézil, Giorgio Agamben, Franco Volpi, Gianni Vattimo, Sergio Givone, David Bidussa, Antonio Gnoli, Angelo D’Orsi, e chi più ne ha più ne metta. Per conoscere pensiero e vita di Jesi, morto a soli 39 anni, questa rivista/libro è certo il viatico migliore. Costicchia (25 euro), ma quando l’avrete per le mani, vedrete che è anche un gran bell’oggetto.

Il numero di “Riga” + libri di e su Furio Jesi su Amazon.it

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14 commenti su “Foucault in Iran: rivoluzione, entropia, uguaglianza

  1. Articolo di una importanza notevole. Soprattutto per la parte finale sull’uguaglianza come universale, come problema fondamentale da porsi (l’osservazione sulle donne è un’epifania). Forse una delle cose più radicalmente politiche che avete scritto. Che ha bisogno di una grossa meditazione.

    Osservazioni estemporanee, su due piedi: anche il pensiero di Foucault può essere inteso come una singolarità, una discontinuità rispetto al modello di pensiero militante che si trovava intorno (ne ha almeno un paio, nel suo percorso, di discontinuità). E forse lavora “in eccesso” per scindere i legami fossili di un certo modo strutturale di vedere le cose, categorie anziché forze, tipico della sinistra intellettuale francese-occidentale del tempo (e non solo). Serve a rendere il pensiero fluido.

    Azzardo che in parte già Deleuze, che pure nell’insistere sull’irriducibilità del Molteplice aveva un approccio contiguo a Foucault, potrebbe aver suggerito delle vie d’uscita dall’impasse (più che ai Millepiani, penso al lavoro sul punto di vista, tra Leibniz e Spinoza).
    Però sì, c’é bisogno di ripensare alle forme, alla matematica che è alla base (che non significa poter prevedere le dinamiche, ma per esempio evitare la mossa sbagliata, lo scacco matto).
    Che poi vuol dire guardare alla questione comunista in modo estremamente concreto. Con uno sguardo capace davvero di rimetterla in gioco.

  2. (segnalo sull’argomento anche questo volume, non so se reperibile http://www.mimesisedizioni.it/archives/000525.html Purtroppo non l’ho più con me)

  3. scusate, mi e’ venuta dal cuore:

    La scritta invincibile
    (B. Brecht 1934)

    Al tempo della guerra mondiale
    in una cella del carcere italiano di San Carlo
    pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri,
    un soldato socialista incise sul muro col lapis copiativo:
    viva Lenin!

    Su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile, ma
    scritto in maiuscole enormi.
    Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino con un secchio di calce
    e quello, con un lungo pennello, imbiancò la scritta minacciosa.
    Ma siccome, con la sua calce, aveva seguito soltanto i caratteri
    ora c’è scritto nella cella, in bianco:
    viva Lenin!

    Soltanto un secondo imbianchino coprì il tutto con più largo pennello
    sì che per lunghe ore non si vide più nulla. Ma al mattino,
    quando la calce fu asciutta, ricomparve la scritta:
    viva Lenin!

    Allora i secondini mandarono contro la scritta un muratore armato di coltello.
    E quello raschiò una lettera dopo l’altra, per un’ora buona.
    E quand’ebbe finito, c’era nella cella, ormai senza colore
    ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile:
    viva Lenin!

    E ora togliete il muro! Disse il soldato.

  4. […] This post was mentioned on Twitter by Angelo Ricci, andrea. andrea said: @LRN___ #intmag #Foucault in Iran: rivoluzione, entropia, uguaglianza http://is.gd/ikur6 […]

  5. Nelle sue ultimissime interviste, Foucault esplicita in maniera netta il suo riconoscersi nello scetticismo; e sottolinea con chiarezza che ciò che lo tiene distante dal pensiero greco è l’idea che l’etica significhi un comportamento comune. Per Foucault la libertà è sempre un fatto individuale (in questo, la sua derivazione da Nietzsche è palese), mai collettivo o comunitario. Questo ha due conseguenze, che nello specifico si rivelano nel modo in cui si interroga sulla rivoluzione iraniana: Foucault non emette giudizi, non si sente legittimato a farlo (in questo c’è una certa differenza da Deleuze, che non si limita a chiedersi “cosa significano” determinate pratiche, ma, anche se in modo non normativo né prescrittivo, esprime un proprio giudizio: vedi le pagine delle “Conversazioni” sulle linee di fuga e i buchi neri); Foucault non si pone il problema dell’universale – di alcun universale – perché ciò è del tutto alieno dal suo pensiero. E dunque anche il problema dell’uguaglianza è visto con sospetto.
    Si tratta, in realtà, della radicalizzazione della posizione che assunse nel dibattito con Chomsky: Foucault tendeva quasi istintivamente a sospettare di qualunque ipotesi alternativa ai poteri costituiti, perché vedeva in essi una mancata comprensione della reale natura del potere, col conseguente rischio di ricreare sotto altre forme quel potere che si intendeva abbattere. In altri termini, Foucault ha rovesciato, con la sua pratica di studio, l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach: non è ancora tempo di cambiare il mondo, perché non lo si è ancora studiato abbastanza. Questo limite è però anche il punto di forza della sua filosofia analitica del potere. Se devo riassumerlo con un’immagine, Foucault è come il tentativo di fuga dell’abate Faria: un fallimento dal punto di vista del fuggitivo, ma al tempo stesso l’evento decisivo per la fuga di Edmond Dantès. In questo momento siamo tutti Edmond Dantès: ecco perché non possiamo fare a meno di Foucault. E di critiche come questa di WM1, che spostano le questioni di un passo in avanti.

  6. Segnalo che sul sito Materiali foucaultiani c’è una mia intervista sul “giornalismo filosofico”. E’ un’intervista doppia (sul sito la definiscono “forum”), perché le stesse domande sono state rivolte (all’incirca un mese fa) a me e a Sandro Chignola, docente di filosofia politica a Padova.

    http://www.materialifoucaultiani.org/fr/materiali/forum-e-interviste/56-forum-giornalismo-filosofico/130-wu-ming-1.html

    Qui anticipo la mia risposta all’ultima domanda:

    «…per quanto mi riguarda, ogni espressione è “militante”: militia est vita hominis super terram. Ogni produzione discorsiva e testuale è potenzialmente conflitto, resistenza, politica. Certo, il lavoro teorico può ridursi a vaniloquio incomprensibile e incapace di incidere, per questo torna utile (anzi, è necessaria) la mappatura di quella zona di convergenza tra archivio e strada. Nel memorandum sul Nuovo Epico scrivevo che a farci tornare in quella zona è un “desiderio feroce”. È il desiderio di tenere il culo in strada, anche mentre si “vola alto”. Può sembrare la quadratura del cerchio, e in effetti lo è. Siamo nel mondo tangibile, dove il cerchio esiste come oggetto solido, fatto di qualche materiale. Un cerchio di ferro, ad esempio. Per trasformarlo in quadrato, serve qualche colpo di martello ben assestato. Bisogna imparare a usare il martello. Giornalismo filosofico a colpi di martello. Lo aveva già detto Nietzsche, in fondo. Il problema è che non siamo gli unici a usare questo utensile, anzi! Altri soggetti, ben più potenti di noi, vogliono afferrare oggetti e imporre loro certe forme. I loro martelli sono più grossi dei nostri? Può darsi. Proprio per questo, perché per le strade c’è disparità di forze (e monopolio legale della violenza), vanno inventate, apprese, insegnate nuove arti marziali concettuali. Si dice che i calci volanti del Tae kwon do furono inventati affinché un appiedato potesse disarcionare un guerriero a cavallo. Si dice che il silat, arte marziale indonesiana che si combatte sopratutto a terra (inginocchiati, accovacciati, avvinghiati all’avversario), si sia evoluto in quel modo per annullare il vantaggio fornito all’avversario da una maggiore statura. Non so se sia vero, ma sono buoni esempi. Serve fare qualcosa del genere. E servono “alleanze tra locutori”. È una guerra, uno non può combatterla da solo. Sogno un “giornalismo filosofico” che sappia frequentare i picchetti operai di questi giorni, le lotte contro le discariche, i sit-in anti-TAV, le intemerate dei pastori sardi incazzati. Sogno un baratto di parole e azioni, tra soggettività diverse, intorno ai fuochi che scaldano i presidi notturni.»

  7. […] This post was mentioned on Twitter by Angelo Ricci, Luca Giudici. Luca Giudici said: RT @Wu_Ming_Foundt Su "Materiali foucaultiani", intervista a Wu Ming 1 http://bit.ly/fDkVtz […]

  8. Una domanda che mi viene spontanea e a cui potrei rispondere con un pò di ricerca, ma sono pigra e mi ci vorrebbe troppo tempo: che dice MF a proposito della guerra contro l’Iraq? A mio avviso, non si possono comprendere gli eventi della rivoluzione iraniana senza considerare la centralità di quelli bellici, che hanno plasmato l’Iran khomeinista molto più della rivoluzione in senso stretto.
    La guerra ha reso palese quello che era lo scopo di Khomeini e del suo seguito, che era, appunto, tutt’altro che universale. Si trattava di creare una nuova identità per lo sciismo, un’identità in cui l’Iran persiano sarebbe stato il punto di riferimento indiscusso. Un’identità nazionale, prima di tutto. Se prendete la prima guerra mondiale e l’effetto che ebbe sullo sviluppo delle identità nazionali europee, noterete che le similitudini sono moltissime.
    La vera chiave per comprendere la rivoluzione iraniana secondo me è questa. Khomeini sì che ha modernizzato l’Iran, gli ha dato un’identità nazionale fortissima, fondata sulle centinaia di migliaia di soldati (qualcuno dice un milione) che si buttarono sui campi minati con la foto dell’Ayatollah nel taschino della divisa.

  9. @ Adrianaaa

    quando scoppia la guerra tra Iran e Iraq, nel settembre 1980, Foucault – sbertucciato, attaccato da più parti – ha già smesso di occuparsi della rivoluzione iraniana come evento e rottura di un ordine. Quel che dici è giustissimo, la guerra finisce di plasmare e cristalizzare la situazione, però… le leggi contro le donne e la stretta autoritaria sono della primavera ’79, a regime appena insediato. Quando un anno e mezzo dopo scoppia la guerra col vicino di casa, le tendenze sono già tutte in campo, delineate e chiare. Ed è questo che mi interessava indicare: il momento in cui l’entropia di un evento rivoluzionario inizia a fargli perdere specificità e a rivelare (con l’abbassarsi della marea) i contorni di quella che per me è la vera sfida, cioè quella dell’universale, dell’essere all’altezza di questo universale che è l’uguaglianza. Non sono un “iranologo” né un islamologo. Sono invece interessato al limite di un pensiero (pure fecondo) che ragiona solo in termini di singolarità, differenze, cesure, discontinuità etc.

  10. “Lo scacco di una rivoluzione si misura sempre nel suo cozzare contro quest’idea, nel suo non essere all’altezza di questo universale [cioe’ l’ uguaglianza]. Universale che, benché più volte incompreso, resta comprensibile a chiunque, perché comprensibili a chiunque sono le implicazioni del motto: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Se, pur con tutto lo sporcarsi le mani e le scelte gravose, una rivoluzione non mostra di puntare all’inveramento di questo motto, allora non è più niente, torna ad essere falso evento.
    La vicenda di Foucault in Iran ha dunque molto da dirci: dimostra che un approccio anche fecondo e ricco di intuizioni non toccherà davvero il reale se non affronta il problema dell’universale. Che per me è come dire: il problema del comunismo.”

    e a me viene di nuovo in mente brecht:

    [Lode del comunismo]

    È ragionevole, chiunque lo capisce: è facile.
    Non sei uno sfruttatore, lo puoi intendere.
    Va bene per te, informatene.
    Gli idioti lo chiamano idiota e, i sudici, sudicio.
    È contro il sudiciume e contro l’idiozia.
    Gli sfruttatori lo chiamano delitto.

    Ma noi sappiamo:
    è la fine dei delitti.
    Non è follia ma invece
    fine della follia.
    Non è il caos ma
    l’ordine, invece.
    È la semplicità
    che è difficile a farsi.

  11. Curiosità: arriva in Iran il pensiero radicale europeo: Badiou, Žižek, Rancière, Bensaid, Agamben…
    http://bit.ly/fyTRxn

  12. […] contro un regime senza cadere in un’autocrazia (come è stato invece il caso dell’Iran nel 1979), che è possibile liberarsi da una dittatura ed al contempo emanciparsi dal […]

  13. Leggo le dissertazioni di certi “intellettuali” riguardo le sommosse che scuotono il Nord Africa e mi torna in mente, con insistenza, questo articolo. Noi europei non smetteremo mai (e non vedo proprio come potremmo mai riuscirci) di guardare il mondo con i nostri occhiali da europei.

  14. […] un post di Wu Ming 1 su Giap* e due set di immagini hanno iniziato a scorrermi davanti agli occhi: uno ha a che vedere con la […]