Politica

WIKILEAKS

"Washington sostenga Berlusconi
avremo più soldati in Afghanistan"

Gli Stati Uniti nei cablo pubblicati in esclusiva dall'Espresso e anticipati da Repubblica. Nel 2005 la gaffe sull'Iraq da Vespa: A Porta a Porta il
premier annunciò il ritiro: il testo fu inviato ai generali Usa a Bagdad

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LA DEBOLEZZA di Berlusconi costringe il premier e i suoi parlamentari a dire sì all'invio di nuove truppe in Afghanistan, per ingraziarsi il presidente Obama. Il Cavaliere è politicamente debole, non informa il Parlamento delle sue decisioni, usa le istituzioni per trarre vantaggi elettorali ed è incalzato dai processi. Va quindi aiutato per sopravvivere al crescente malcontento per l'impegno italiano in Iraq o per ottenere più soldati a Kabul. Sono due i cablo, del 2005 e del 2009, che alzano un velo su quello che gli Usa pensano del Cavaliere. Che va tutelato, per metterlo al riparo dai suoi stessi difetti. Non è ancora scoppiato il caso Ruby, le imputazioni per concussione e prostituzione minorile non sono ancora state formulate, ma l'allarme tra i diplomatici Usa in Italia è già alto. Ed è ricorrente l'appello che gli ambasciatori statunitensi a Roma rivolgono al loro governo: Berlusconi va pressato con telefonate di massimo livello affinché mantenga le promesse. Siano repubblicani o democratici, la debolezza di Berlusconi viene vissuta dai diplomatici con una doppia chiave di lettura: da una parte non lo mette in condizione di dire alcun "no" all'alleato. Dall'altra va aiutato a restare in sella. Parlano chiaro le 30mila pagine di file classificati ottenute da WikiLeaks, pubblicate in esclusiva italiana da L'espresso e anticipate da Repubblica.

L'impegno italiano a Kabul
È l'11 dicembre del 2009. L'ambasciata Usa guidata da David Thorne scrive al segretario di Stato Hillary Clinton un messaggio che allega anche ai diplomatici di Kabul e al rappresentante statunitense presso la Nato. Parla della decisione italiana di inviare altri mille soldati in Afghanistan. Gli Stati Uniti sono sorpresi dalla disponibilità del governo, che annuncia il surge più massiccio tra tutti i partner Isaf andando oltre le aspettative. È un successo della loro strategia di adulazioni e pressioni nei confronti del premier italiano, che appena un mese prima al vertice Nato di Lisbona era stato pubblicamente lodato per l'impegno a Kabul dal presidente Obama. Il cablo descrive il percorso parlamentare per l'approvazione dell'invio di nuovi militari deciso il 3 dicembre dal governo. L'ambasciatore è preoccupato dalla scelta di Berlusconi di annunciare i rinforzi bypassando le Camere: "Sebbene Berlusconi abbia una confortante maggioranza parlamentare (gli uomini di Gianfranco Fini appoggiano ancora il governo, ndr), la sua decisione di annunciare il contributo prima di consultare il Parlamento lo lascia esposto alle critiche all'interno della coalizione e dell'opposizione". Ma a preoccupare è anche la consapevolezza che il Cavaliere potrebbe avere fatto il passo più lungo della gamba mandando 1000 soldati: questa scelta, scrive Thorne, "potrebbe causare critiche a Berlusconi che impegna l'Italia al di sopra dei suoi mezzi nel pieno di una crisi economica mentre Francia e Germania non danno contributi". Da qui il commento indirizzato alla Clinton: "Con una crescente lista di guai politici - battaglie legali in corso, la crescente rivalità pubblica con il presidente della Camera Fini e l'incertezza della coalizione di centrodestra - l'impegno in Afghanistan si potrebbe ritorcere contro Berlusconi. Raccomandiamo che Washington offra un continuativo e regolare contatto di alto livello, in particolare con Berlusconi, Frattini e La Russa, per assicurare che il maggior contributo alla missione Isaf arrivi presto".

Le rassicurazioni di Schifani
Prima di inviare il rapporto l'ambasciatore incontra riservatamente il presidente del Senato Renato Schifani. Il quale esclude intoppi parlamentari per la ratifica della decisione e spiega al diplomatico il perché Berlusconi abbia "risposto immediatamente" all'appello di Obama sull'invio di truppe. "Il legame transatlantico è un elemento chiave della sua visione del mondo che trascende i partiti, gli individui e le istituzioni". Un elemento chiave della rincorsa dell'Italia berlusconiana alla Casa Bianca guidata da Barack Obama, che appena un anno prima il Cavaliere aveva definito "abbronzato" causando il gelo della neoeletta amministrazione democratica. Nonostante le rassicurazioni di Schifani, Thorne informa il dipartimento di Stato che l'ambasciata sta "aggressivamente raggiungendo i parlamentari e gli uomini chiave per ringraziare e incoraggiare il passaggio in Parlamento" della decisione sull'Afghanistan.

L'exit strategy per l'Iraq

A preoccupare il primo alleato di Roma è stata anche la politica di Berlusconi sull'Iraq. È il 2005. L'Italia è sotto shock per l'uccisione a Baghdad del funzionario del Sismi Nicola Calipari dopo la liberazione di Giuliana Sgrena. Il premier è assediato da Romano Prodi, che forte della sua storica ostilità alla guerra in Iraq promette il ritiro delle truppe nel caso di vittoria nelle elezioni dell'anno successivo. Intanto da affrontare ci sono le regionali. L'opinione pubblica inizia a capire che la missione voluta da Bush e appoggiata da Blair, Aznar e Berlusconi spaccando l'Europa non era così necessaria. E così Berlusconi annuncia a sorpresa il ritiro delle truppe italiane: inizierà nel settembre 2006. Peccato che non abbia prima informato l'amministrazione Usa e che la clamorosa svolta non venga comunicata in Parlamento, ma dal salotto di Bruno Vespa. È il 15 marzo 2005 quando a Porta a Porta Berlusconi sgancia la bomba. Con costernazione i funzionari dell'ambasciata svegliano i generali a Baghdad e chiamano in fretta e furia Washington per reagire alla sparata. L'ambasciatore Spogli nel 2009, nel rapporto di fine mandato consegnato alla Clinton, parlerà di Berlusconi come di un personaggio politico a rischio per le sue gaffes e per il "frequente uso delle istituzioni pubbliche per conquistare vantaggi elettorali". Un convincimento maturato anche grazie all'episodio iracheno.

I generali e il programma tv
Come spiega lucidamente il suo predecessore a Roma, che quella notte l'ha vissuta in prima persona. È il 17 marzo 2005, due giorni dopo l'annuncio televisivo sul disimpegno italiano in Iraq, quando l'ambasciata affidata a Mel Sembler scrive un documento "confidenziale" al vicesegretario alla Difesa Paul Wolfovitz, al generale John Abizaid (capo dello Us Central Command), all'ambasciatore a Bagdad John Negroponte e al comandante della forza multinazionale, il generale George Casey: per spiegare il passo falso dell'alleato di Roma ai massimi vertici dall'avamposto americano in Iraq è costretto ad allegare l'integrale trascrizione del botta e risposta tra Berlusconi e i giornalisti Mario Orfeo e Paolo Gambescia nel salotto tv di Vespa.  L'analisi di quanto accaduto è chiarissima: "Berlusconi ha realizzato che la discussione su un'exit strategy in Iraq è un asset in vista delle elezioni regionali". Insomma, il premier italiano annuncia in televisione il ritiro dall'Iraq per mere esigenze elettorali. Poi corre ai ripari e, come ricorda lo stesso Sembler, telefona a Bush per dirgli che "nulla è cambiato" nella politica italiana. L'ambasciatore nota che in realtà, se lette in filigrana, le parole pronunciate da Vespa non contenevano nulla di nuovo, perché sottoponevano il ritiro ad una serie di condizioni che gli daranno "spazio di manovra" per rimangiarsi la promessa. Un mero annuncio propagandistico studiato da un politico "che legge astutamente i sondaggi" e consapevole che l'anno successivo, quando gli elettori dovranno scegliere tra lui e Prodi, "si ricorderanno più probabilmente della promessa che dei caveat alla quale è sottoposta". Dunque un alleato spregiudicato, che però lascia di stucco gli americani anche dopo avere compreso la sua strategia mediatica: "Quello che sorprende è la decisione di giocare questa carta ora, prima delle elezioni regionali nelle quali l'Iraq sarà un argomento minore".
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