Cultura

Gli italiani in fuga da cinema e musei
la spesa per la cultura giù per la prima volta

Il rapporto Federculture: in un anno 3 miliardi in meno. Pesano i risparmi delle famiglie e i tagli imposti agli enti locali che riducono gli eventi. In caduta libera le sponsorizzazioni

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ROMA - Un po' più spenti e un po' più ignoranti. E' così che ci ha ridotto la crisi. Leggiamo di meno, andiamo di meno al cinema o a teatro. Abbiamo tagliato l'ascolto della musica classica, ci teniamo lontani da mostre e musei e siamo quasi rassegnati allo sfiorire del bello. Dopo dieci anni di orgogliosa resistenza abbiamo rinunciato anche ai consumi culturali. Fra il 2001 e il 2011 la spesa che le famiglie avevano destinato a questa voce era risultata in costante aumento, più 26,3 per cento. Anche nel 2008, agli esordi della crisi, anche nel 2011 nonostante i tagli ai trasferimenti effettuati dallo Stato e il crollo nel potere d'acquisto registrato dalle famiglie. Ma lo scorso anno abbiamo gettato la spugna: meno 4,4 per cento in soli dodici mesi. La spesa che i cittadini dedicano alla cultura è scesa dagli oltre 72 miliardi del 2011 ai 68,9 del 2012.

Una tendenza in netto calo raccontata dal rapporto Federculture, l'associazione delle aziende pubbliche e private che operano nel settore. Il bilancio, questa volta, è tutto in negativo. Sono diminuiti dell'8,2 per cento gli italiani che vanno a teatro, del 6 quelli che visitano mostre o musei, del 23 quelli che vanno ai concerti classici: dove l'anno scorso la platea era piena, ora c'è una poltrona vuota ogni quattro. Nei siti culturali statali i visitatori sono stati 36 milioni, contro i 40 del 2011 (meno 9,5 per cento). Sconfortante il confronto con le altre capitali e grandi città: le prime dieci mostre organizzate a Roma hanno attratto 1,3 milioni di visitatori, quelle di Parigi 3,6 milioni, New York 3,9 e Londra 4,3. Impietosa la perdita di attrattiva e le conseguenze che il fatto potrà avere sul turismo: nel 2012 l'Italia è uscita dalla top ten che il Country Brand Index stila ogni anno per misurare il valore del marchio-Paese nel mondo. Siamo passati in un solo anno dal decimo al quindicesimo scalino.

Cos'è successo? I redditi sono crollati, d'accordo. La spending review ha massacrato gli investimenti dello Stato in cultura, che oggi rappresentano solo lo 0,2 per cento del bilancio totale. Per le stesse necessità di risparmio, fra il 2006 e il 2010 i Comuni hanno tagliato la spesa dell'8 per cento e le Province del 13. Il mercato delle sponsorizzazioni nel 2012 è crollato dell'8,2 per cento rispetto all'anno precedente. In particolare le aziende hanno tagliato dell'11 per cento e le fondazioni bancarie del 18,8.

Senza dubbio mancano i soldi necessari sia ad alimentare la domanda, che a garantire l'offerta, ma per il presidente di Federculture Roberto Grossi, la vera questione è un'altra. "La voglia di cultura c'è - assicura - ciò che manca è la strategia. Questo Paese da anni non ha una politica per la cultura. La classe politica, dispiace dirlo, è arretrata e incolta, non ha capito che anche in tempi di crisi la cultura è una porta che deve restare aperta. Se siamo usciti dal dopoguerra, se siamo entrati nel G8 il merito è dell'identità conquistata e la crescita culturale è anche crescita sociale ed economica". Al di là del taglio ai trasferimenti, secondo Grossi è stato nefasto il tentativo di aumentare il controllo della spesa attraverso una maggiore burocrazia: "Parlo del decreto 78 del 2011 che impedisce agli enti locali di costruire nuove aziende di servizio: una norma che ha tagliato le gambe alla produttività".

Ora, conclude il rapporto, la sveglia deve suonare subito, perché la bellezza non basta più a proteggerci. "Sarebbe stato impensabile fino a poco fa ipotizzare che Berlino, un cumulo di macerie ancora nel dopoguerra sorpassasse Roma, la città eterna, nella graduatoria delle attrazioni turistiche internazionali". Eppure nel 2012 è successo, anche perché la Germania ha investito nell'industria culturale e creativa come fattore centrale per l'occupazione, l'impresa e il welfare. Il risultato è che ora il valore aggiunto del settore nell'economia tedesca è di 137 miliardi di euro, quasi il doppio dell'Italia, ferma a quota 75,8 miliardi.